
Cop21 di Parigi, conferenza sui cambiamenti climatici
E’ stato siglato, nella serata del 12 dicembre, l’accordo sul clima che ha visto riuniti a Parigi i leader di 195 paesi del mondo intorno all’obiettivo di limitare l’innalzamento della temperatura della Terra entro i 2° alla fine del secolo. Un momento storico, è stato definito, in cui per la prima volta viene riconosciuta l’urgenza di ridurre le emissioni di gas serra.
L’accordo auspica di poter fermare l’asticella a 1,5° rispetto all’era preindustriale, ma le misure sin qui messe in campo volontariamente dagli stati nazionali sono insufficienti e alcuni paesi non hanno presentato alcun progetto, come riconosce lo stesso testo promulgato dalla Conferenza. C’è bisogno di “uno sforzo molto più importante”, si legge nel testo, però non sono state introdotte sanzioni per quegli stati che dovessero essere inadempienti e il primo appuntamento di revisione è fissato al 2023.
Troppo tardi e troppo poco, secondo molti analisti. Di fatto anche le proiezioni delle Nazioni Unite mostrano un riscaldamento globale di almeno 2,7°, sulla base degli attuali contributi volontari di ciascun paese. L’accordo inoltre entrerà in vigore se almeno 55 paesi lo ratificheranno (rappresentanti il 55 per cento del totale delle emissioni di gas serra).
Non c’è stata dunque quella discontinuità che migliaia di attivisti hanno chiesto durante le numerose manifestazioni che si sono svolte in tutto il mondo, dalla Marcia Globale per il Clima alle contestazioni di varia natura che hanno sfidato i divieti imposti dallo stato di emergenza in Francia e la paura del terrorismo un po’ ovunque. Anche numerosi esponenti della comunità scientifica hanno evidenziato la scarsa efficacia dei provvedimenti adottati, come spiega Max Strata, esperto di progettazione e formazione in materia di rifiuti, ecologia e sostenibilità ambientale.
Di vincolante non c’è niente e i singoli paesi, quelli ricchi come gli emergenti e i più poveri, continueranno a muoversi ciascuno per conto proprio, autocertificando gli interventi finalizzati a diminuire le emissioni climalteranti, mentre gli incentivi all’uso del petrolio potrebbero continuare a ricevere la modica cifra di cinquecento miliardi di dollari all’anno. Intanto, un grado di temperatura ce lo siamo già giocati e quindi ci resta un margine strettissimo su cui operare per riorganizzare l’intera economia globale dominata dai combustibili fossili.
La Conferenza, iniziata un giorno prima dell’inaugurazione e terminata un giorno dopo il termine fissato (29 novembre-12 dicembre), si è incagliata più volte sui punti essenziali, fra cui gli interventi economici a favore dei paesi più poveri e in via di sviluppo. Alla fine, sono 100 i miliardi di dollari annui che saranno stanziati dal 2020, per opere di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici nelle aree meno sviluppate.
Il 2020 è l’anno in cui dovrebbe essere reso completamente disponibile il fondo comune per il trasferimento delle “tecnologie pulite” ai paesi a scarsa industrializzazione, cosa che appare un buon business per molte aziende occidentali. E solo nel 2020 si tornerà a parlare di revisione e aggiornamento delle politiche nazionali di riduzione delle emissioni climalteranti, mentre il controllo dell’attuazione degli impegni è previsto addirittura nel 2023. C’è ancora tutto il tempo per dare fondo alle riserve di oro nero prima di procedere con convinzione su una via alternativa, benché la ricerca scientifica abbia da tempo precisato che siamo in grave ritardo rispetto ai cambiamenti da effettuare.
In realtà si rende necessario abbattere subito l’uso di petrolio, carbone e gas naturale, smettere di tagliare le foreste e smettere di allevare animali in modo intensivo, ovvero, ridurre drasticamente le quantità di merci in circolazione e colpire al cuore il tipo di economia dominata dall’idea di crescita a cui (noi dei paesi più ricchi) ci siamo abituati. E tutto questo senza intaccare i consumi del trasporto aereo e marittimo, per non parlare dei costi energetici dell’apparato militare mondiale che per definizione non vengono neppure contabilizzati poiché vale il principio che la guerra è una cosa a parte, Pianeta da salvare o meno.
Ma perché non ci viene detto che ci troviamo in una fase di picco delle risorse naturali, un attimo prima del rapido declino della loro disponibilità su scala internazionale? Nei tuoi articoli hai scritto che siamo di fronte ad un generale tipping point, ovvero ad un punto di non ritorno ecologico oltre il quale si manifestano in modo esponenziale i ritorni negativi del processo che abbiamo messo in moto.
Facciamo finta di non sapere che la densità energetica del petrolio non è attualmente sostituibile, perciò si afferma che la Green Economy è il futuro, ovvero che lo sviluppo delle energie rinnovabili ci porterà fuori dal pantano in cui ci siamo infilati. Necessariamente, saranno gli investimenti della finanza a modificare gli assetti attuali e ad avviare la de-carbonizzazione, considerato che per raggiungere gli obiettivi individuati entro il 2050 sarà indispensabile lasciare sotto terra i combustibili fossili.
In sostanza, secondo lo spirito di Parigi, sarà questa nuova indicazione politica dei grandi e dei piccoli della Terra a far cambiare strada alla grandi lobbies del settore e a dirottare investimenti e strategie di business verso un altro modello di produzione dell’energia. Come a dire a chi ha procurato il problema: ora devi risolverlo. Io continuo a restare scettico sulla capacità dell’establishment di comprendere davvero quanto sta avvenendo al Pianeta sotto il profilo chimico/fisico e quindi non credo che tale sovrastruttura possa essa in grado di organizzare una risposta efficace.
Allora secondo te il vero limite della Cop21 è stato non affrontare il tema centrale della crescita economica
Se vogliamo reagire, non si può prescindere da una profonda modifica dell’esistente, ragione per cui appare quanto meno azzardato confidare che un cambiamento di tale portata possa venire da coloro (individui e gruppi) che sul mantenimento dell’attuale modello economico e sociale fondano le loro posizioni di privilegio e di potere.
Appare più ragionevole e concretamente fattibile sviluppare in tempi brevi la costruzione di una resilienza locale che significa iniziare da subito a ridisegnare i flussi di energia e di materia che caratterizzano ciascun territorio secondo una logica “carbon neutral” e di economia circolare, riducendo rapidamente le emissioni climalteranti e organizzando in loco (e non in mega impianti) la produzione di energia rinnovabile e la fornitura di servizi, sviluppando una forte agricoltura locale stagionale e non monocolturale, investendo in progetti di conservazione della biodiversità e degli ecosistemi.
Piuttosto che lasciare che qualcuno provveda per noi, in questo caso si tratta di operare direttamente e non per delega, in modo orizzontale e non verticale (verticistico), affinché diminuisca progressivamente non solo la pressione che esercitiamo su tutte le risorse del Pianeta, ma anche la concentrazione di denaro e di poteri che attualmente fanno sì che il 99% della ricchezza globale sia posta nelle mani dell’1% dei nostri concittadini.
Dobbiamo raggiungere un modello ecologico autenticamente sostenibile, inclusivo, equo e stazionario, un modello che si sta già sperimentando con varie modalità in realtà rurali e urbane di tutti continenti e che probabilmente può permetterci di affrontare in modo intelligente la transizione che ci attende.
di Daniela Francesconi
Sulla Cop21 Max Strata ha pubblicato i seguenti articoli
La situazione è critica ma state calmi su Pisorno.it 14/12/2015
Fare bene e con meno per salvare il Pianeta, Il Tirreno 11/12/2015

Fare bene con meno per salvare il Pianeta. Articolo di Max Strata su Il Tirreno dell’11 dicembre 2015